Alessandro Biggio, Irene Dioniso, Nona Inescu, Kyriaki Goni, Lucia Pizzani, Natália Trejbalová, Rachel Youn
Alessandro Biggio
Antonio Calderara, Alessandro Manfrin, Cosimo Pichierri, Marta Pierobon, Lisa Ponti, Alessandra Spranzi, Marco Strappato, Franco Vimercati
Bora Baboci, João Freitas, Enej Gala, Albano Hernandez, Mehdi-Georges Lahlou, Mirthe Klück, Leonardo Meoni, Giovanni Oberti, Oscar Abraham Pabón, Eugenia Vanni, Xiao Zhiyu, Francesco Carone
Bora Baboci, Adam Bilardi, Enej Gala, Cecilia Granara, Julien Monnerie, Jessy Razafimandimby, Ambra Viviani
Giulio Delvè, João Freitas, Mirthe Klück, Marco Andrea Magni, Giovanni Oberti, Oscar Abraham Pabón, Namasal Siedlecki, Jamie Sneider, Eugenia Vanni, Xiao Zhiyu
João Freitas, Mirthe Klück, Marco Andrea Magni, Oscar Abraham Pabón, Eugenia Vanni
Mirthe Klück, Marco Andrea Magni, Eugenia Vanni, Serena Vestrucci
Sara Enrico, Helena Hladilovà, Pietro Manzo, Giovanni Oberti
Ho l’impressione che mi manchi qualcosa non vuole essere solo un titolo, ma anche un invito: riparare, riflettere, riorientare. Lo spazio espositivo si trasforma in un cantiere di segni, materiali e superfici che cercano di rimettere il mondo al mondo, con la consapevolezza che ogni gesto è un atto di resistenza e di riscrittura.
La mostra è l’esperienza di una vertigine: quella di un’assenza. Non quella retorica della nostalgia o dell’idealizzazione, ma una mancanza reale, una faglia che attraversa il nostro presente e che il linguaggio dell’arte può interrogare con precisione.
Ho l’impressione che mi manchi qualcosa dichiara un difetto di percezione. Non c’è assenza di un oggetto, ma della capacità di nominarlo. Magni intende dare spazio all’impermanenza dello stato di completezza e totalità.
L’apertura il 25 aprile, festa della Liberazione, segna proprio l’importanza della ricerca di qualcosa che, appena dato, sfugge già. L’allestimento incarna così questo stato di sospensione: camminando su un pavimento di pluriball rosa, lo spettatore interagisce già fisicamente con la galleria. Questa membrana fragile si fa soglia e filtro: trattiene e rilascia, assorbe e riflette. In uno spazio così trasformato, i materiali si caricano di senso. Chiodi, magneti, carte abrasive e luci non sono semplici elementi di costruzione, ma dispositivi di misura, strumenti di attrito e orientamento.
Nelle opere in mostra, la visione è un esercizio faticoso. Come ha scritto Georges Didi-Huberman, “vedere non è mai semplice”. E non è mai neutro. Le opere rallentano, sfuggono alla codifica, si muovono sul bordo sottile tra evidenza e scomparsa. Si ha l’impressione che qualcosa vi si celi, e proprio per questo ci riguardano.
Ogni lavoro è un utensile per il pensiero, uno strumento per interrogare il presente. Non si tratta di risolvere, ma di mantenere aperta la possibilità della trasformazione. Perché ciò che manca – ciò che ci manca – è anche una responsabilità politica. L’omissione non è mai innocente. Esiste un diritto all’invisibile, all’indicibile, al tempo lento del dubbio.
La mostra si costruisce allora come un luogo di soglia: tra il visibile e l’invisibile, tra il documento e la traccia, tra ciò che resta e ciò che si dissolve. In questo senso, la mancanza non è un difetto, ma una condizione produttiva. Un campo da attraversare, non da colmare.
Chi entra in questo spazio si confronta con una domanda, non con una risposta. E quella domanda – “che cosa mi manca?” – è forse la sola che valga la pena continuare a porre.